Il problema del permafrost: ecologia, inquinamento e cambiamenti climatici
В Сибири
Il documento che segue tratta dei problemi disastrosi
provocati dall’innalzamento della temperatura terrestre. Si parla di Alaska,
ma il discorso vale anche per la Siberia, citata infatti nel testo, ed in
generale per tutte le regioni del pianeta in cui vi è presenza di permafrost. La situazione allarmante,
taciuta dai media, deve portarci il più presto possibile a modificare i nostri
comportamenti tornando a rispettare la natura, altrimenti essa si farà
rispettare da sola.
(Il testo è tratto dalla newsletter Information Guerrilla http://www.informationguerrilla.org/ che su
concessione della casa editrice pubblica il primo capitolo di Cronache da una catastrofe. Viaggio in un pianeta
in pericolo: dal cambiamento climatico alla mutazione delle specie Elizabeth
Kolbert, Nuovi Mondi Media
2006)
SHISMAREF, ALASKA
di Elisabeth Kolbert
Il villaggio di Shishmaref, in Alaska, si trova su un'isola chiamata Sarichef, a cinque miglia dalle coste della penisola di Seward. Sarichef è una piccola
isola (circa 400 metri di larghezza per 4 km di lunghezza) e Shishmaref è praticamente l'unica
cosa che esiste sull'isola. A nord c'è il mare di Chukchi
e in tutte le altre direzioni si estende la Bering Land
Bridge National Preserve,
che probabilmente si piazza ai primi posti fra i parchi nazionali meno visitati
degli USA. Durante l'ultima era glaciale, questo ponte di terre, che emersero
in seguito a un abbassamento del livello del mare di
oltre 100 metri, crebbe fino a raggiungere una larghezza di oltre 1.500 km.
Oggi la riserva naturale occupa quella frazione di terre che, dopo più di
10.000 anni di clima caldo, rimane al di sopra del
livello del mare.
Shishmaref (ab. 591) è un villaggio Inupiat abitato, perlomeno stagionalmente, da parecchi
secoli. Come in molti villaggi in cui risiedono popolazioni autoctone
dell'Alaska, la vita qui è un misto - spesso sconcertante - di molto antico e
completamente moderno. Quasi tutti a Shishmaref
sopravvivono ancora grazie alla caccia, soprattutto di foche barbute ma anche
di trichechi, alci, conigli e uccelli migratori. Quando ho visitato il
villaggio, in un giorno di aprile, era il periodo del
disgelo primaverile e stava per cominciare la stagione della caccia alle foche;
aggirandomi nei dintorni, quasi inciampai nei resti della caccia dell'anno
precedente che emergevano da sotto la neve. A mezzogiorno il responsabile dei
trasporti del villaggio, Tony Weyiouanna, mi invitò a pranzo a sua casa. Un televisore enorme piazzato
in soggiorno e sintonizzato sull'emittente pubblica locale trasmetteva una
musica rock. Lo schermo era attraversato di continuo da scritte del tipo
"Buon compleanno ai signori..."
Secondo l'uso tradizionale, gli
uomini di Shishmaref andavano a caccia di foche
spingendosi sul mare ghiacciato alla guida di slitte tirate da cani o, in tempi
più recenti, di motoslitte. Dopo che gli uomini avevano portato al villaggio le
foche catturate, le donne le scuoiavano e le trattavano per la conservazione,
un procedimento che richiedeva parecchie settimane. Verso gli inizi degli anni
'90, i cacciatori iniziarono a notare che il ghiaccio marino* stava cambiando.
Il ghiaccio aveva cominciato a formarsi più tardi in autunno e a sciogliersi
prima in primavera. Una volta ci si poteva spingere a cacciare sul ghiaccio
marino per oltre 30 km dalla linea di costa; oggi, quando arrivano le foche, il
ghiaccio è già molle a metà di quella distanza.
Per descriverne la consistenza, Tony Weyiouanna ha
usato le parole "pappa fangosa". Quando ci si imbatte
in questa poltiglia, racconta Tony, "ti vengono i capelli dritti. Gli
occhi si spalancano. Non si può battere ciglio".
Andare a caccia con le motoslitte è diventato troppo pericoloso e gli uomini
sono passati a usare le barche.
Ben presto i cambiamenti nel
ghiaccio marino portarono anche altri problemi. Nel suo punto più alto, Shishmaref è soltanto sette metri
sopra il livello del mare e le case, costruite per la maggior parte dal governo
degli Stati Uniti, sono piccoli cubi simili a scatole e non hanno un aspetto
particolarmente solido. Quando il mare di Chukchi
congelava prima, lo strato di ghiaccio proteggeva il villaggio allo stesso modo
in cui un telone impedisce che il vento agiti le acque
di una piscina. Quando il mare ha iniziato a gelare
più tardi, il villaggio di Shishmaref è diventato più
vulnerabile ai flutti delle tempeste(per quanto l'affermazione che gli
eschimesi avrebbero centinaia di termini per indicare la neve sia esagerata, è
vero che gli Inupiat distinguono fra molti tipi di
ghiaccio, tra cui sikuliaq, "ghiaccio
giovane", sarri, "ghiaccio del pack" e
tuvaq, "ghiaccio interno, di terra").
Nell'ottobre del 1997, una tempesta si è portata via una striscia della larghezza
di 50 metri dal margine nord della cittadina; varie case sono andate distrutte
e si è dovuto trasferirne altrove più di una dozzina.
Durante un'altra tempesta, nell'ottobre del 2001, il villaggio è stato
minacciato da onde alte quattro metri. Nell'estate del 2002 gli abitanti di Shishmaref hanno approvato (con 161 voti favorevoli e 20
contrari) il trasferimento dell'intero villaggio sulla terraferma. Nel 2004, il
Genio militare dell'esercito USA ha completato un
sopralluogo delle possibili ubicazioni del nuovo villaggio. La maggior parte
dei siti presi in considerazione si trova in zone remote quasi quanto Sarichef, senza strade o città vicine, né insediamenti di alcun tipo. È stato calcolato che il completo
trasferimento verrebbe a costare al governo degli Stati Uniti 180 milioni di
dollari.
La gente di Shishmaref
con cui ho parlato ha espresso emozioni e pareri
contrastanti sulla proposta di spostarsi altrove. Alcuni erano preoccupati poiché temevano che, lasciando l'isoletta,
avrebbero perduto il loro stretto rapporto col mare e, con quello, loro stessi.
Una donna mi ha detto: "È un'idea che mi fa sentire molto sola".
Altri sembravano eccitati dalla prospettiva di ottenere con il cambio certe
comodità (come l'acqua corrente), che a Shishmaref mancano. Tutti comunque sembravano
concordare sul fatto che la situazione del villaggio, già disastrosa, poteva
solo peggiorare.
Morris Kiyutelluk, un
uomo di 65 anni, ha trascorso a Shishmaref quasi
tutta la sua vita. Il suo cognome, come lui stesso mi ha spiegato, significa
"senza un cucchiaio di legno". Ho fatto una chiacchierata con lui
durante una delle mie visite al seminterrato della chiesa del
villaggio, che è anche la sede non ufficiale di un gruppo chiamato "Shishmaref Erosion and Relocation Coalition" [Comitato
Erosione e Trasferimento di Shishmaref].
"La prima volta che ho sentito parlare di riscaldamento globale
ho pensato 'non credo a quei giapponesi'", mi ha
detto Kiyutelluk. "Bene, avevano dei bravi
scienziati, e tutto si è rivelato vero".
La National
Academy of Sciences
americana avviò il suo primo studio rilevante sul riscaldamento globale nel 1979. A quel tempo, lo sviluppo di modelli
climatici era una scienza ancora molto giovane e soltanto pochi gruppi - uno guidato da Syukuro Manabe presso la NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), e un altro da James
Hansen presso il Goddard Institute for Space Studies della NASA - avevano esaminato con una certa
accuratezza gli effetti dell'immissione di anidride carbonica nell'atmosfera.
Eppure, i risultati del loro lavoro furono già abbastanza allarmanti
da indurre il Presidente Jimmy Carter a invitare
l'accademia a effettuare studi ulteriori. Fu quindi istituita una commissione
di nove membri presieduta da Jule Charney,
meteorologo di fama internazionale attivo presso il M.I.T., che negli anni '40 era stato il primo a dimostrare la
possibilità di formulare previsioni del tempo su base numerica.
L'Ad Hoc
Study Group on Carbon Dioxide and Climate [Gruppo di studio ad hoc sull'anidride carbonica e
il clima], o "gruppo di Charney" come
veniva comunemente chiamato, si riunì per cinque giorni nel centro studi estivo
della National Academy of Sciences' a Woods Hole, Massachusetts.
Le conclusioni a cui giunsero i suoi componenti furono
inequivocabili.
Avevano cercato d'individuare dei difetti nella costruzione dei modelli, ma non
erano riusciti a trovarne nessuno. "Se l'anidride
carbonica continua ad aumentare, il gruppo di studio non ha motivo di dubitare
che ne risulteranno cambiamenti climatici e non ha alcun motivo di ritenere che
tali cambiamenti saranno trascurabili", scrissero gli scienziati. Per un
raddoppiamento dei livelli pre-industriali di CO2, essi previdero un probabile
aumento globale della temperatura compreso fra 1,3 e
4,3°C. I componenti del gruppo non erano sicuri del
tempo che ci sarebbe voluto affinché i cambiamenti già innescati diventassero
manifesti, soprattutto perché il sistema climatico ha in sé incorporato un
meccanismo ritardante. L'immissione di CO2 nell'atmosfera produce l'effetto di
portare la Terra fuori "dall'equilibrio energetico". Per poter
ristabilire questo equilibrio - come, secondo le leggi
della fisica, alla fine deve accadere - l'intero pianeta si deve riscaldare,
compresi gli oceani, un processo che, secondo il gruppo di Charney,
avrebbe potuto richiedere "vari decenni". Quindi, quello che poteva
apparire come l'approccio più moderato - attendere che
prove concrete del riscaldamento confermassero l'esattezza dei modelli - in
realtà si risolveva nella più rischiosa delle strategie: "È possibile che
non si avranno segnali di allarme fino a che il carico di CO2 non sarà tale da
rendere inevitabile un cambiamento climatico sensibile".
Sono passati 25 anni da quando il gruppo di Charney ha
pubblicato il suo rapporto e, in questo periodo, gli americani hanno ricevuto
così tanti avvertimenti sui pericoli del riscaldamento globale che riportarne
anche soltanto una piccola parte richiederebbe parecchi volumi. Di fatto, sono
stati scritti interi libri riguardo ai tentativi di attirare l'attenzione
pubblica sul problema; dopo il rapporto di Charney,
la National Academy of Sciences americana ha prodotto quasi altri 200 studi sul
riscaldamento globale, tra cui, per non citarne che
alcuni, "La forza radiattiva del cambiamento
climatico", "Capire i feedback del cambiamento climatico", e
"Implicazioni politiche dell'effetto serra". Durante questo stesso
periodo, le emissioni mondiali di anidride carbonica
hanno continuato ad aumentare, passando da cinque a sette miliardi di tonnellate
metriche l'anno, e la temperatura della Terra, rispettando le previsioni dei
modelli di Hansen e Manabe,
è andata crescendo costantemente. Il 1990 è stato l'anno più caldo mai
registrato fino al 1991, ugualmente caldo. Quasi tutti gli
anni successivi sono stati ancora più caldi. Il 1998 detiene il primato di anno più caldo da quando si è cominciata a tenere una
registrazione delle temperature, ma è seguito da vicino dal 2002 e dal 2003,
che si classificano al secondo posto; seguono poi il 2001, al terzo, e il 2004,
al quarto. Poiché il clima è per sua natura variabile, è difficile dire,
esattamente, da che punto in poi in questa sequenza sia
possibile escludere la variabilità naturale quale unica causa.
Ma nel 2003 l'American Geophysical Union, una delle
più grandi e più stimate organizzazioni scientifiche degli USA,
ha ritenuto la questione definitivamente risolta. Nel congresso di quell'anno l'associazione ha redatto un documento,
approvato da tutti i suoi membri, in cui si afferma che "le influenze
naturali non possono spiegare il rapido aumento delle temperature globali negli strati vicini alla superficie". In base
alle stime più accurate, oggi il mondo è più caldo di quanto sia
mai stato nei duemila anni precedenti e, se questa tendenza persiste,
per la fine del secolo probabilmente sarà più caldo di quanto sia mai stato
negli ultimi due milioni di anni.
Come il riscaldamento globale ha gradualmente cessato di essere una mera teoria,
così anche il suo impatto non è più soltanto ipotetico.
Praticamente tutti i principali ghiacciai del mondo si
stanno riducendo; quelli del Glacier National Park si stanno ritirando così velocemente che,
secondo una stima, entro il 2030 saranno completamente scomparsi. Gli oceani stanno diventando non soltanto più caldi ma anche più
acidi; la differenza fra le temperature diurne e quelle notturne sta
diminuendo; gli animali stanno spostando i confini dei propri areali verso i poli e le piante stanno iniziando a fiorire
in anticipo di giorni, in certi casi di settimane, rispetto al loro solito
periodo. Questi sono i segnali di allarme verso
i quali il gruppo di Charney aveva messo in guardia,
e se in molte parti del globo sono ancora abbastanza sottili da poter essere
trascurati, in altre zone non possono più essere ignorati. Per caso, i
cambiamenti più drammatici si stanno verificando in luoghi, come Shishmaref, in cui tendenzialmente la popolazione è più
scarsa. Anche questo maggiore impatto che il riscaldamento globale
avrebbe avuto sull'estremo nord era stato previsto dai primi modelli climatici,
i quali prevedevano anche, con colonne di cifre generate in linguaggio Fortran,
ciò che oggi può essere misurato e osservato direttamente: l'Artico si sta
sciogliendo.
La maggior parte della terraferma
nelle zone artiche e quasi un quarto di tutte le terre dell'emisfero
settentrionale - circa due miliardi di ettari -
giacciono sotto vari strati di ghiaccio permanente, il permafrost.
Qualche mese dopo la mia visita a Shishmaref, sono
ritornata in Alaska per accompagnare in un tour
all'interno del paese Vladimir Romanovsky, geofisico
ed esperto di permafrost. Quando sono arrivata in
volo a Fairbanks - Romanovsky
insegna all'Università dell'Alaska che ha lì il suo campus
principale - l'intera città era avvolta da una foschia densa simile a nebbia,
ma dall'odore di gomma bruciata. La gente continuava a dirmi
che ero stata fortunata a non arrivare un paio di settimane prima, perché
allora era stato molto peggio.
"Persino i cani portavano la mascherina", mi ha detto una donna che
ho incontrato. Devo aver sorriso. "Non sto scherzando", ha replicato
lei.
Fairbanks, la seconda città dell'Alaska, è
circondata su ogni lato da foreste e praticamente ogni
fulmine estivo appicca il fuoco in questi boschi, riempiendo l'aria di fumo per
giorni o, negli anni peggiori, per settimane.
Nell'estate del 2004 gli incendi
sono iniziati presto, in giugno, e stavano ancora bruciando due mesi e mezzo
più tardi; al momento del mio viaggio, verso la fine di agosto,
erano già stati ridotti in cenere circa 3 milioni di ettari - un'area grande
all'incirca quanto il New Hampshire. La gravità degli incendi era chiaramente
collegata al clima, che era stato eccezionalmente caldo e secco; la media delle
temperature estive era la più alta mai registrata a Fairbanks
e la quantità di piogge era la terza più bassa.
Al mio secondo giorno a Fairbanks, Romanovsky venne a
prendermi in hotel per un tour con cui verificare lo
stato del sottosuolo della città. Come la maggior parte degli esperti di permafrost, Romanovsky è russo
(fu il regime sovietico a inventare, più o meno, lo
studio del permafrost quando decise di costruire in
Siberia i suoi gulag). Uomo dalla corporatura massiccia, con la testa arruffata
di capelli scuri e la mascella quadrata, da studente Romanovsky
dovette scegliere fra l'hockey e la geofisica. Come lui stesso mi ha
raccontato, aveva optato per la seconda perché
"come scienziato me la cavavo un po' meglio che come giocatore di
hockey". Aveva poi continuato a studiare, conseguendo due master e due dottorati. Romanovsky
arrivò alle 10 del mattino; con tutto quel fumo, sembrava l'alba.
Qualsiasi zona
del terreno rimasta congelata per almeno due anni è, per definizione, permafrost. In alcuni posti, come la Siberia orientale,
lo strato di permafrost arriva a più di un chilometro
di profondità; in Alaska la sua profondità può variare dai 60 a più di 600
metri. Fairbanks, che si trova appena al di sotto del Circolo Polare Artico, è situata in una
regione di permafrost discontinuo, il che significa
che la città è come butterata da zone di terreno ghiacciato. Una delle prime
fermate nel giro con Romanovsky fu presso una buca apertasi in una zolla di permafrost
non lontano da casa sua. La buca era larga circa due metri e profonda
un metro e mezzo. Lì vicino si indovinano i contorni
di altre buche, ancora più grandi, che, disse Romanovsky,
erano state riempite di ghiaia dal locale ufficio dei lavori pubblici. Questi
buchi sono il prodotto di fenomeni termocarsici, ovvero sono dovuti all'improvviso scioglimento del permafrost, un po' come accade a un pavimento d'assi
marcite (il termine tecnico per lo scioglimento del permafrost
è talik, da una parola russa che significa "non
congelato").
Romanovsky mi indicò,
attraverso la strada, una lunga trincea che correva dentro il bosco. La
trincea, mi spiegò, si era formata in seguito allo scioglimento di un cuneo di
ghiaccio sotterraneo. Gli abeti rossi che crescevano nelle vicinanze del cuneo,
o magari sopra, ora se ne stavano lì inclinati in strane angolazioni,
come piegati da un vento fortissimo. La gente del posto li chiamava "gli
ubriachi". Alcuni abeti rossi erano caduti del tutto. "Questi qui
sono molto ubriachi", disse Romanovsky.
In Alaska il terreno è crivellato
di cunei di ghiaccio formatisi durante l'ultima glaciazione, quando la terra
raffreddandosi si spaccò e le crepe si riempirono d'acqua. Questi cunei, che
possono trovarsi a decine o persino a centinaia di metri di profondità, tendono
a formare delle reti, per cui quando si sciolgono
lasciano dietro di sé delle depressioni di forma esagonale (tipo diamante) fra
loro collegate. A pochi isolati di distanza dalla foresta ubriaca, arrivammo a una casa il cui giardino mostrava chiari segni dello
scioglimento dei cunei ghiacciati. Il proprietario, nel tentativo di far buon
viso a cattivo gioco, lo aveva trasformato in un minigolf. Girato l'angolo, Romanovsky mi indicò un'altra casa
- ormai disabitata - che si era praticamente spaccata in due; il corpo
principale pendeva inclinato a destra, il garage a sinistra.
L'edificio era stato costruito negli anni '60 o nei primi anni '70 ed era
sopravvissuto fino a una decina d'anni fa, quando lo
strato di permafrost sottostante aveva iniziato a
decomporsi. La suocera di Romanovsky un tempo aveva posseduto due case in quello stesso
quartiere. Lui aveva insistito perché le vendesse entrambe. Me ne indicò una,
che adesso aveva un nuovo proprietario; il tetto aveva assunto un aspetto tutto
ondulato, che non faceva presagire niente di buono. Quando
si era deciso a comprare casa, Romanovsky aveva
limitato la sua ricerca alle zone libere dal permafrost.
"Dieci anni fa, nessuno si
preoccupava del permafrost - mi disse - Oggi tutti
vogliono sapere". Le misurazioni che Romanovsky
e i suoi colleghi dell'Università dell'Alaska hanno effettuato
nell'area di Fairbanks dimostrano che la temperatura
del permafrost è aumentata a tal punto da arrivare
oggi, in molte zone, a meno di un grado al di sotto dello zero. Nei luoghi in
cui è stato intaccato per costruire strade, case o tappeti erbosi, il permafrost in gran parte si sta già sciogliendo. Romanovsky sta monitorando anche il permafrost
del North Slope, la regione
settentrionale dell'Alaska sulla Prudhoe Bay, e anche lì ha riscontrato alcune zone in cui la
temperatura del permafrost è molto vicina allo zero.
Mentre le buche che i fenomeni termocarsici aprono
nel fondo stradale, e il talik al
di sotto degli scantinati, rappresentano quel genere di problemi che
toccano davvero soltanto le persone che ci vivono vicino, o addirittura sopra,
il riscaldamento del permafrost ha una portata che va
ben oltre le perdite di beni immobiliari della gente del posto. Da un lato, il permafrost rappresenta una documentazione molto speciale
dei trend a lungo termine della temperatura; dall'altro, si comporta di fatto come un serbatoio di gas serra. Con il cambiamento
climatico, vi sono buone probabilità che questi gas vengano
infine rilasciati nell'atmosfera, contribuendo ulteriormente al riscaldamento
globale.
Benché l'età del permafrost
sia difficile da determinare, Romanovsky valuta che
in Alaska la maggior parte di questi strati risalga probabilmente all'inizio
dell'ultima glaciazione. Ciò significa che, se tale ghiaccio si scioglie, sarà
per la prima volta in oltre 120.000 anni. "Questo è davvero un periodo molto
interessante", è stato il commento di Romanovsky.
La mattina seguente, Romanovsky passò a prendermi alle sette. Il piano era di
viaggiare in auto per più di 700 km a nord di Fairbanks,
fino alla città di Deadhorse sulla Prudhoe Bay. Romanovsky
fa questo giro almeno una volta all'anno, per
raccogliere i dati delle molte centraline che ha installato.
Dato che la strada era in gran parte non asfaltata, per l'occasione aveva
affittato un camion. Il parabrezza era rotto in vari punti. Quando provai a dire che avrebbe potuto essere un problema, Romanovsky mi rassicurò affermando che quella era la
"tipica Alaska". Come provviste, si era portato una megaconfezione di
Tostitos.
La strada che stavamo seguendo -
la Dalton Highway - è stata
costruita per i pozzi di petrolio e l'oleodotto le corre a fianco, a volte
sulla sinistra, altre volte sulla destra (a causa del permafrost,
le condutture corrono soprattutto in superficie, su piloni contenenti ammoniaca
che funge da refrigerante). Continuavano a sorpassarci dei camion, alcuni con
teste di caribù fissate con delle cinghie al tettuccio, altri appartenenti all'Alyeska Pipeline Service Company. Sui camion dell'Alyeska
campeggiava, scritto a vernice, lo sconcertante motto "Nessuno si fa
male". A circa due ore d'auto da Fairbanks,
iniziammo ad attraversare tratti di foresta che erano andati a fuoco di
recente, poi zone dove la cenere era ancora fumante e infine aree in cui, qua e
là, ardevano ancora le fiamme. La scena sembrava tratta in parte dall'inferno
dantesco, in parte da "Apocalypse
now".
Procedemmo a passo d'uomo attraverso il fumo. Qualche ora più tardi arrivammo a
Coldfoot, un luogo che probabilmente deve il suo nome al fatto che alcuni cercatori d'oro
arrivati qui nel 1900 si impaurirono [in inglese, to get "cold feet"] e tornarono da dove erano venuti. Ci fermammo
per il pranzo in una stazione di servizio per camion, che rappresentava più o meno l'intero abitato. Subito dopo Coldfoot
oltrepassammo il limite degli alberi. Su un sempreverde era
affisso un cartello che diceva: "Questo è l'abete rosso più a nord lungo
l'Alaska Pipeline: non tagliare". Come era
prevedibile, qualcuno ci aveva provato con un coltello. Una profonda incisione tutt'attorno al tronco era fasciata con nastro adesivo.
"Penso che morirà", mi disse Romanovsky.
Finalmente, verso le cinque del pomeriggio, raggiungemmo la strada secondaria
che portava alla prima stazione di rilevamento. Ora viaggiavamo ai piedi della
catena del Brooks Range. Le
montagne erano color porpora nella luce del pomeriggio.
Poiché uno dei colleghi di Romanovsky aveva nutrito
il sogno - mai realizzato - di arrivare in aereo alla stazione di rilevamento,
la centralina era situata nei pressi di una piccola pista di atterraggio,
sulla sponda opposta di un fiume dalla corrente veloce. Ci infilammo
gli stivali di gomma e lo passammo a guado, approfittando dell'acqua bassa
dovuta alle piogge scarse. La stazione consisteva in pochi pali piantati nella
tundra, un pannello solare, un pozzo di trivellazione profondo 60 metri da cui
usciva un fascio di grossi cavi, e un contenitore bianco, simile a una scatola termica, che racchiudeva una serie di
apparecchiature elettroniche. Il pannello solare, che l'estate precedente era
stato montato sollevato da terra di qualche decina di centimetri, ora giaceva
in mezzo alla sterpaglia. All'inizio Romanovsky pensò
che si fosse trattato di un atto vandalico ma, dopo
avere ispezionato le cose più da vicino, stabilì che era l'opera di un orso.
Mentre lui collegava un computer portatile a uno dei
dispositivi all'interno del contenitore bianco, io avevo il compito di tenere
d'occhio i dintorni, per controllare se si avvicinavano animali selvatici.
Quanto più si scende in
profondità, tanto più il permafrost si scalda, per la
stessa ragione per cui in una miniera di carbone si
suda, cioè per il calore che affluisce dal centro della terra. Nelle condizioni
di equilibrio - vale a dire, quando il clima è stabile
- in un pozzo di trivellazione le temperature più calde si trovano verso il
fondo e decrescono in modo costante man mano che si sale. In queste circostanze
la temperatura più bassa viene registrata alla
superficie del permafrost, così che, riportati in
grafico, i risultati daranno una retta inclinata. Ma
negli ultimi decenni il profilo della temperatura del permafrost
in Alaska ha avuto un crollo drammatico. Ora, anziché essere una linea retta,
il grafico è più simile a una falce. La temperatura
massima del permafrost si ha ancora sul fondo del
pozzo, ma il punto più freddo non è alla superficie bensì più
o meno a metà strada, mentre verso la superficie la temperatura si alza
di nuovo. Un segno inequivocabile del fatto che il clima si
sta riscaldando.
"È molto difficile studiare
i trend nella temperatura dell'aria, proprio perché
essa è così variabile", mi spiegava Romanovsky;
eravamo tornati al camion e ci stavamo dirigendo, sobbalzando, verso Deadhorse. Scoprii che si era portato i Tostitos non tanto per ingannare la fame quanto la
fatica sgranocchiare lo teneva sveglio, mi disse - e il sacchetto era ormai
mezzo vuoto. "E così, nella regione di Fairbanks
un anno c'è una temperatura media annuale di zero gradi e tu dici: 'Eh, si sta proprio riscaldando',
e poi in altri anni la temperatura annuale media è di sei gradi sotto zero, e
tutti dicono: 'E allora? Dov'è il vostro riscaldamento globale?'
Riguardo alla temperatura dell'aria, il segnale è molto debole in confronto al
rumore. Il permafrost funziona come un filtro a passo
basso. Ecco perché le tendenze della temperatura sono molto più
facili da vedere nel permafrost che
nell'atmosfera". Nella maggior parte dell'Alaska, la
temperatura del permafrost è aumentata di tre gradi
dai primi anni '80 ad oggi; in certe zone, l'aumento è di quasi sei gradi.
Quando si cammina nell'Artico,
non si posano i piedi sul permafrost ma su qualcosa che viene chiamato "lo strato
attivo". Questo strato, il cui spessore può variare da qualche centimetro
a qualche metro, ghiaccia d'inverno ma si scioglie
d'estate ed è ciò che sostiene la crescita delle piante - grandi abeti là dove
le condizioni sono abbastanza favorevoli, arbusti dove non
lo sono, e infine solo licheni. Nello strato attivo, la vita è molto simile a
quella che si può osservare nelle regioni più temperate, ma con una differenza
cruciale. Le temperature sono così basse che gli alberi e le erbe, quando
muoiono, non si decompongono completamente. Le nuove piante si sviluppano sopra
quelle vecchie, decomposte solo a metà, e quando anche
queste muoiono si verifica di nuovo lo stesso fenomeno. Infine, tramite un processo
noto come crioturbazione, la materia organica viene spinta sotto lo strato attivo, fino al permafrost, dove può restare per migliaia di anni in una
sorta di versione botanica della morte apparente (a Fairbanks,
è stata trovata erba ancora verde in strati di permafrost
che risalgono a metà dell'ultima glaciazione). È per questa ragione che il permafrost, in modo molto simile a
una torbiera o, sotto questo riguardo, a un giacimento di carbone, funge da
deposito di carbonio accumulatosi nel tempo.
Uno dei rischi dell'innalzamento della temperatura è che il processo di deposito possa
iniziare a funzionare al contrario. Se si creano le
condizioni giuste, materiale organico che è rimasto congelato per millenni
comincerà a degradarsi emettendo anidride carbonica o metano, che è un gas
serra ancora più potente (benché a vita più breve). In alcune parti dell'Artico
questo processo è già in atto. Un gruppo di ricercatori svedesi, ad esempio,
sta misurando da circa 35 anni le emissioni di metano di una palude conosciuta
come il 'pantano di Stordalen',
situata vicino alla città di Abisko, oltre 1.300 km a
nord di Stoccolma. Con il riscaldarsi del permafrost,
le emissioni di metano in questa zona sono aumentate, in alcuni punti anche del
60%. Lo scioglimento del permafrost potrebbe rendere
lo strato attivo più ospitale per le piante, che sono
un serbatoio naturale (sink) di carbonio.
Ma neppure questo sarebbe sufficiente a
controbilanciare le emissioni di gas serra. Nessuno sa esattamente quanto
carbonio è immagazzinato nel permafrost di tutto il
pianeta, ma le stime arrivano a valori altissimi, come 450 miliardi di
tonnellate metriche.
"È come una minestra
precotta: basta scaldare appena un po' ed è bella e pronta", mi disse Romanovsky. Era il giorno successivo al nostro arrivo a Deadhorse e ci stavamo dirigendo, attraverso una
pioggerella insistente, verso un'altra stazione di monitoraggio. "Penso
che sia come una bomba a orologeria; perché scoppi, è
necessario soltanto che la temperatura salga appena un altro po'". Romanovsky indossava un impermeabile sopra gli abiti da
lavoro di canapa, io me ne infilai uno che lui aveva portato per me. Poi tirò
fuori un telone dal retro del camion.
Ogni volta che ha ricevuto dei
finanziamenti, Romanovsky ha aggiunto alla sua rete
nuovi siti di monitoraggio che, attualmente, sono una
sessantina; per tutto il tempo che rimanemmo nel North
Slope lui trascorse l'intera giornata e anche parte
della notte - c'era luce fin verso le 11 - correndo da una centralina
all'altra. In ogni sito la procedura era più o meno la
stessa. Per prima cosa collegava il suo computer al data
logger, l'unità per la registrazione dei dati, che
dall'estate precedente aveva misurato la temperatura del permafrost
ogni ora. Quando pioveva, Romanovsky eseguiva questa prima operazione accovacciato sotto il telone. Poi
estraeva una sonda di metallo a forma di "T" e la infilava nel
terreno a intervalli regolari, per misurare la
profondità dello strato attivo. La sonda era lunga un metro, ma, come poi scoprimmo, questa lunghezza non era più sufficiente.
L'estate era stata così calda che, quasi ovunque, lo strato attivo era
diventato più profondo, in alcuni punti solo di qualche centimetro, in altri in
misura ben più rilevante. Dove lo strato attivo era particolarmente spesso, Romanovsky aveva dovuto escogitare un nuovo metodo per la
misurazione, usando la sonda come un metro di legno. Io l'ho aiutato, prendendo
nota dei risultati di questi esercizi nel suo taccuino da campo impermeabile.
Alla fine - mi ha spiegato - il calore che aveva fatto aumentare la profondità
dello strato attivo si sarebbe aperto la via verso il
basso, portando il permafrost molto vicino al punto
di scioglimento. "Torni l'anno prossimo", mi ha raccomandato.
Nell'ultimo giorno della nostra
permanenza nel North Slope
arrivò un amico di Romanovsky, Nicolai
Panikov, microbiologo presso lo Stevens
Institute of Technology, in
New Jersey. Il suo progetto era quello di raccogliere
microrganismi che prediligono le temperature molto
basse, chiamati psicrofili, per poi riportare i
campioni nel New Jersey e studiarli. Panikov aveva
l'obiettivo di determinare se quegli organismi avrebbero potuto vivere nelle particolari condizioni che un tempo, a quanto si
crede, erano presenti su Marte. Panikov mi disse di essere
profondamente convinto che su Marte esiste la vita -
o, almeno, è esistita. Romanovsky espresse la sua
opinione a riguardo stralunando gli occhi; comunque
aveva acconsentito ad aiutare Panikov a scavare un
po' di permafrost.
Quello stesso giorno, volai in
elicottero con Romanovsky fino a
una piccola isola nel Mar Glaciale Artico, un altro sito in cui aveva
installato una stazione di monitoraggio. L'isola, appena più a nord del
settantesimo parallelo, era una desolata distesa di fango punteggiata di piccoli
ciuffi di vegetazione giallastra. Era piena di cunei
di ghiaccio che stavano cominciando a sciogliersi, generando una rete di
depressioni poligonali. Faceva freddo ed era umido, così, mentre Romanovsky se ne stava acquattato sotto il suo telone, io
rimasi nell'elicottero a chiacchierare col pilota. Viveva in Alaska dal 1967.
"È certamente diventato più caldo da quando mi
sono stabilito qui. L'ho davvero notato", mi disse.
Quando Romanovsky
uscì fuori dal suo riparo, facemmo un giro dell'isola
a piedi. In primavera era stato probabilmente un luogo di nidificazione per gli
uccelli, perché ovunque andammo trovammo frammenti di
gusci d'uovo e mucchi di escrementi. L'isola si trovava a soli tre metri circa
sopra del livello del mare e i suoi bordi affilati cadevano a strapiombo
nell'acqua. Romanovsky indicò un punto lungo la costa
in cui l'estate precedente aveva notato una serie di cunei di ghiaccio
affioranti. I cunei si erano sciolti e il terreno aveva ceduto, lasciando il
posto a una cascata di fango nero. Nel giro di qualche
anno, mi disse, si aspettava che altri cunei di ghiaccio venissero a trovarsi
esposti per poi fondere, aggravando l'erosione. Rispetto a Shishmaref,
i meccanismi dei due processi erano diversi, ma le cause erano le stesse e,
secondo Romanovsky, anche gli esiti sarebbero stati molto probabilmente identici. "Ecco
un'altra isola che scompare - mi disse indicando a gesti alcuni dirupi esposti
da erosioni recenti - tutto il terreno sta cedendo molto, molto in
fretta".
Il 18 settembre 1997 il Des Groseilliers, una nave
rompighiaccio lunga 100 metri con lo scafo di un bel rosso vivo, salpò dalla
città di Tuktoyaktuk, sul mare di Beaufort,
dirigendosi a nord sotto un cielo coperto da una coltre di nubi. Normalmente il
Des Groseilliers, che è
ancorato a Québec City, viene
usato dalla Guardia Costiera canadese, ma in quel particolare viaggio
trasportava un gruppo di geofisici americani che aveva in programma di andarsi
a infilare in un lastrone di ghiaccio galleggiante della banchisa.
Gli scienziati speravano di poter eseguire una serie di esperimenti
mentre la nave e il lastrone andavano alla deriva, come un unico corpo, nel Mar
Glaciale Artico. C'erano voluti anni per preparare la spedizione, e in fase di
progettazione gli organizzatori avevano attentamente esaminato i risultati di
una precedente spedizione artica, che risaliva al 1975. I ricercatori a bordo
del Des Groseilliers erano
perfettamente consapevoli che il ghiaccio del mare artico si stava ritirando;
anzi, era esattamente quello il fenomeno che speravano di riuscire a studiare. Nonostante ciò, furono presi alla sprovvista. Basandosi sui
dati della spedizione del 1975, avevano stabilito di cercare un blocco di
ghiaccio galleggiante dello spessore medio di tre
metri. Quando raggiunsero la zona dove avevano
progettato di trascorrere l'inverno - a 75 gradi di latitudine nord -
scoprirono che non solo non c'era alcun lastrone galleggiante di quello
spessore, ma a malapena si potevano trovare blocchi che raggiungevano i due
metri. Uno degli scienziati che parteciparono a quella
spedizione ha ricordato con queste parole la reazione a bordo del Des Groseilliers: "Della
serie 'eccoci qua, tutti agghindati e tirati a
lucido, e nessun posto dove andare'. Provammo a immaginare che effetto avrebbe fatto ai nostri sponsor
alla National Science Foundation se li avessimo chiamati per dire loro 'Be', sapete, non riusciamo proprio a trovare del ghiaccio'".
Il ghiaccio marino dell'Artico è
di due tipi diversi. C'è un ghiaccio stagionale, che si forma d'inverno e si
scioglie d'estate, e uno perenne, che dura tutto l'anno. A
un occhio inesperto i due tipi possono apparire più o meno identici, ma
leccandolo si può dedurre con sufficiente precisione da quanto tempo quel
particolare blocco sta galleggiando in mare. Quando dall'acqua marina comincia
a formarsi il ghiaccio, il sale viene eliminato perché
non trova posto nella sua struttura cristallina. Man mano che il ghiaccio si ispessisce, il sale spinto fuori si raccoglie in
minuscole sacche piene d'acqua salmastra, troppo concentrata per congelare. Se succhiate un pezzo di ghiaccio vecchio di un anno,
scoprirete che ha un sapore salato.
Infine, se il ghiaccio resta congelato abbastanza a lungo, queste sacche di acqua salata si svuotano attraverso piccoli, sottili
canali simili a vene, e il ghiaccio diventa più dolce. Il ghiaccio marino
vecchio di qualche anno è così puro che, una volta sciolto, lo
si può bere.
Le misurazioni più precise del
ghiaccio marino artico sono state effettuate dalla
NASA, per mezzo di satelliti equipaggiati con sensori a microonde.
Come rivelano i dati satellitari, nel 1979 il pack, il ghiaccio marino perenne,
copriva una superficie di 0,8 miliardi di ettari,
ovvero un'area all'incirca della stessa grandezza degli Stati Uniti
continentali. L'estensione del ghiaccio varia di anno
in anno, ma da allora si rileva una tendenza generale a una forte diminuzione.
Le perdite sono state particolarmente forti nei mari di Chukchi
e di Beaufort, e considerevoli anche nel mare della Siberia Orientale e nel mare di Laptev.
Durante questo stesso periodo un pattern di circolazione atmosferica,
denominato Oscillazione Artica, si è mantenuto per lo più nella modalità che i climatologi definiscono
"positiva".
L'Oscillazione Artica positiva è caratterizzata da
bassa pressione sopra il Mar Glaciale Artico, che tende a produrre forti venti
e temperature più alte nell'estremo nord. Nessuno sa con certezza se il recente
comportamento dell'Oscillazione Artica sia indipendente dal riscaldamento
globale o se ne sia un prodotto. È tuttavia un dato di fatto che il ghiaccio
marino perenne oggi si è ridotto di circa 100 milioni di ettari,
un'area della grandezza degli stati di New York, Georgia e Texas messi insieme.
Secondo i modelli matematici, persino il lungo periodo di Oscillazione
Artica positiva può spiegare solo in parte questa perdita.
Al tempo in cui il Des Groseilliers partì per la sua
spedizione, le informazioni disponibili sui trend relativi
alla profondità del ghiaccio marino erano ancora poche. Qualche anno più
tardi, una quantità limitata di dati - raccolti, per scopi piuttosto diversi,
dai sommergibili nucleari - cessò di essere coperta dal segreto militare e fu
resa pubblica. Questi dati dimostravano che fra gli anni '60 e gli anni '90 la
profondità del ghiaccio marino in una grande sezione
del Mar Glaciale Artico era diminuita quasi del 40%.
Alla fine i ricercatori a bordo
del Des Groseilliers
presero la decisione di ripiegare sul migliore lastrone di ghiaccio che fossero riusciti a trovare. Ne scelsero uno con una
superficie di circa 78 km2 e uno spessore di due metri in alcuni punti, di
appena un metro in altri. Sul lastrone galleggiante furono montate delle tende
per condurre gli esperimenti e vennero imposte
speciali misure di sicurezza: chiunque si avventurasse fuori dalla nave, sul
ghiaccio, doveva essere accompagnato da un altro e portare con sé una radio
(molti prendevano anche una pistola, in caso di problemi con gli orsi polari).
Alcuni degli scienziati formularono l'ipotesi che, essendo il ghiaccio
insolitamente sottile, nel corso della spedizione il suo spessore sarebbe
aumentato. In realtà avvenne l'esatto contrario. Il Des
Groseilliers trascorse dodici mesi incastrato nella
banchisa e durante quel periodo andò alla deriva per circa 300 miglia verso nord. Ma, alla fine dell'anno, lo spessore medio del
lastrone era diminuito, in alcuni punti anche di un terzo. Ad agosto del 1998
gli scienziati caduti in acqua erano stati così numerosi che al protocollo di
sicurezza fu aggiunta una nuova prescrizione: chiunque
mettesse piede fuori dalla nave doveva indossare un giubbotto di salvataggio.
Donald Perovich ha
studiato il ghiaccio marino per trent'anni. Andai a
trovarlo nel suo ufficio in Hanover, New Hampshire, in un giorno piovoso non molto tempo dopo il
mio rientro da Deadhorse. Perovich
lavora per il Cold Regions Research and Engineering
Laboratory, o CRREL (che si pronuncia "crell"). Il CRREL è una sezione dell'Esercito degli
Stati Uniti, istituita nel 1961 in previsione di una guerra molto fredda
(l'ipotesi di fondo era che, se i Sovietici avessero
tentato un'invasione, con ogni probabilità lo avrebbero fatto dal nord). Perovich è alto, ha capelli e
sopracciglia nerissimi e modi affabili e calorosi. Il suo ufficio è tappezzato
di fotografie della spedizione del Des
Groseilliers, alla quale ha partecipato in veste di
responsabile scientifico; ci sono foto della nave, delle tende e, se si guarda
abbastanza attentamente, degli orsi. In una foto tutta sgranata si vede
qualcuno vestito da Babbo Natale, mentre celebra il Natale fuori nel buio, in
mezzo ai ghiacci. "La cosa più divertente che si possa fare", è stato
il commento con cui Perovich mi ha descritto la
spedizione.
La particolare area di competenza
di Perovich, citando le parole che compaiono nella
sua biografia ufficiale pubblicata dal CRREL, è "l'interazione fra
radiazione solare e ghiaccio marino". Durante la
spedizione del Des Groseilliers,
Perovich trascorse gran parte del suo tempo
controllando le condizioni del ghiaccio per mezzo di un dispositivo
chiamato spettroradiometro. Puntato verso il sole, questo apparecchio misura la luce solare incidente; puntato
verso terra, misura la luce riflessa. Dividendo la seconda per la prima, si
ottiene una misura definita albedo (il termine deriva da
una parola latina che significa "bianchezza"). Durante i mesi di aprile e maggio, quando le condizioni sul lastrone di
ghiaccio erano relativamente stabili, Perovich eseguì
misurazioni con lo spettroradiometro una volta alla
settimana; invece nei mesi di giugno, luglio e agosto, in cui le condizioni
variavano più velocemente, rilevò le misure ogni due giorni. Ciò gli ha
permesso di seguire esattamente la variazione dell'albedo da
quando la neve sopra al ghiaccio si trasformava in fanghiglia, e poi la
fanghiglia in pozze, fino a quando, infine, le pozze completamente disciolte
arrivavano a riversarsi nel mare sottostante.
Una superficie bianca ideale, che
riflettesse tutta la luce incidente su di essa,
avrebbe un albedo di 1, mentre una superficie nera ideale, che assorbisse tutta
la luce incidente, avrebbe un albedo di 0. L'albedo della Terra è, nel
complesso, di 0,3; ciò significa che poco meno di un terzo della luce solare
che colpisce la superficie viene riflesso. Qualsiasi
cosa che modifica l'albedo della Terra produce anche una variazione della
quantità di energia assorbita dal pianeta, con
conseguenze potenzialmente drammatiche. "Mi piace questo metodo perché si
basa su concetti semplici, ma molto importanti", mi diceva Perovich.
A un certo punto Perovich
mi chiese di immaginare di guardare giù, sulla Terra, da una nave spaziale che
passa sopra il Polo Nord. "È primavera, il
ghiaccio è coperto di neve ed è molto bianco e luminoso. Riflette oltre l'80% della luce solare incidente". L'albedo è intorno
a 0,8-0,9. "Ora, - dice - supponiamo che tutto quel ghiaccio si sia
sciolto e che sia rimasto soltanto l'oceano. L'albedo dell'oceano è meno di
0,1; è intorno a 0,07. L'albedo del ghiaccio coperto di neve
non solo è alto, ma è addirittura il più alto che si può trovare sulla
Terra". E continua: "L'albedo dell'acqua non solo è
basso, ma è più basso di qualunque altra cosa che si trovi sulla
superficie terrestre. Quindi, ciò che stiamo facendo è
sostituire la cosa che riflette meglio la luce solare con la cosa che la
riflette meno di tutte". Quanto più grande è la superficie dell'oceano che
resta esposta, tanto maggiore è la quantità di energia
solare che va a riscaldare l'oceano stesso. Il risultato è un circuito a
feedback positivo, simile a quello tra lo scioglimento
del permafrost e il rilascio di carbonio in
atmosfera, ma solo più immediato. Si ritiene che questo feedback
ghiaccio/albedo sia una delle principali ragioni per cui l'Artide si sta
scaldando così rapidamente.
"Se il ghiaccio marino fonde, possiamo immettere più calore nel sistema,
il che significa che possiamo far fondere altro ghiaccio marino, che vuol dire che possiamo immettere ancora più calore e così via;
come è facile vedere, è un sistema che si carica da solo", dice Perovich. "È sufficiente una piccola 'spinta', e il sistema climatico l'amplificherà in un grande
cambiamento".
A poche decine di chilometri a est del CRREL, non lontano dal confine Maine-New
Hampshire, c'è un piccolo parco, la Madison Boulder Natural Area. La maggiore attrattiva del parco, di fatto la
sua unica attrattiva, è rappresentata da un masso di granito grande quanto una
casa a due piani.
Questo macigno - il Madison Boulder,
appunto - è largo 11 metri e lungo 25, e pesa circa 4.500 tonnellate. Il masso,
che si staccò dalle White Mountains
e rimase depositato nella sua attuale posizione 11.000 anni fa, è la
dimostrazione del fatto che cambiamenti relativamente piccoli nel sistema
climatico possono produrre, se amplificati, risultati di proporzioni colossali.
Geologicamente parlando, stiamo
vivendo in un periodo caldo che è seguito a un'era
glaciale. Negli ultimi due milioni di anni, enormi
ghiacciai sono avanzati nell'emisfero settentrionale, per poi ritirarsi di
nuovo, più di venti volte (e ogni grande avanzata tendeva, per ovvi motivi, a
distruggere le prove di quelle precedenti). Il movimento più recente, chiamato
'glaciazione Wisconsin', ebbe inizio all'incirca
120.000 anni fa. Il ghiaccio iniziò ad avanzare lentamente a
partire da centri situati in Scandinavia,
Siberia e negli altopiani nei pressi della Baia di Hudson, inoltrandosi
gradatamente attraverso quelli che oggi costituiscono i territori dell'Europa e
del Canada.
Nel periodo in cui i ghiacciai raggiunsero la loro massima estensione verso sud,
gran parte degli stati del New England e di New York
e buona parte delle regioni superiori del Midwest erano sepolte sotto una coltre di ghiaccio spessa più di un
chilometro. Questi ghiacci erano così pesanti da esercitare una forte
compressione della crosta terrestre, fino a spingerla in basso, facendola
rientrare nel mantello (in alcuni luoghi il processo di recupero da questa
pressione, denominato 'rimbalzo isostatico', è ancora
in atto).
Ritirandosi, all'inizio del periodo interglaciale attuale, l'Olocene, i
ghiacciai lasciarono lungo il loro cammino, fra le altre tracce, anche il
deposito morenico terminale che oggi si chiama Long Island.
Oggi è un fatto riconosciuto, o
perlomeno quasi universalmente accettato, che le ere glaciali sono avviate da lievi
e periodiche variazioni dell'orbita terrestre. Queste variazioni - causate, tra
gli altri fattori, dalla forza di attrazione
gravitazionale degli altri pianeti - alterano la distribuzione della luce
solare alle diverse latitudini nelle varie stagioni e seguono un ciclo
complesso che impiega 100.000 anni a completarsi. Le variazioni dell'orbita,
tuttavia, non sono di per sé sufficienti a produrre quel tipo di ghiacciaio
imponente che si trascinò dietro il Madison Boulder. Quel ghiacciaio di dimensioni impressionanti, il Laurentide, che si estendeva per oltre 13 milioni di km2,
era il risultato di feedback più o meno analoghi a
quelli che si studiano oggi nell'Artico, ma in direzione opposta. Con
l'estendersi della superficie ghiacciata l'albedo
aumentava, portando a un assorbimento di calore sempre minore e quindi a una
crescita della quantità di ghiaccio. Allo stesso tempo, per ragioni che non
sono ancora del tutto chiare, con l'avanzare dei
ghiacci i livelli atmosferici di CO2 si abbassarono: durante ognuna delle
glaciazioni più recenti si è verificata una caduta dei livelli di anidride
carbonica, in un sincronismo quasi perfetto con l'abbassamento delle
temperature. In ogni periodo caldo, al ritirarsi dei ghiacci i livelli di CO2
aumentavano di nuovo. I ricercatori che hanno analizzato questi fenomeni sono giunti alla conclusione che la differenza di temperatura fra
periodi freddi e periodi caldi possa essere attribuita per una buona metà ai
cambiamenti nelle concentrazioni dei gas serra.
Mentre ero al CRREL, Perovich
mi fece incontrare un suo collega, John Weatherly. Sulla porta dell'ufficio di Weatherly
c'era un adesivo, ideato per essere attaccato - illegalmente - ai paraurti dei S.U.V., con su scritto "Io
cambio il clima! Chiedimi come!" Weatherly sviluppa
modelli climatici e da molti anni lui e Perovich stanno lavorando per tradurre i dati raccolti nella
spedizione del Des Groseilliers
in algoritmi informatici da usare per le previsioni del clima. Weatherly mi ha detto che, secondo
alcuni modelli climatici - i più importanti attualmente in uso in tutto il
mondo sono circa quindici - entro il 2080 nell'Artico la banchisa perenne sarà
interamente scomparsa. A quel punto, anche se d'inverno continuerebbe a
formarsi uno strato di ghiaccio stagionale, d'estate il Mar Glaciale Artico
sarebbe completamente libero dai ghiacci. "Non avverrà nel corso della
nostra vita - mi diceva - ma durante quella dei nostri figli".
Più tardi, dopo esser tornati nel
suo ufficio, io e Perovich abbiamo parlato delle
prospettive a lungo termine per l'Artico. Lo studioso notava che il sistema
climatico terrestre è così vasto da non poter essere
alterato facilmente. "Da una parte, viene da pensare, è il sistema
climatico della Terra; è grande, è solido. E, in
effetti, deve essere abbastanza solido altrimenti cambierebbe di
continuo". D'altra parte, i dati climatici indicano che sarebbe un errore
presumere che il cambiamento, nel caso si verifichi,
arriverà gradualmente. Perovich mi ha riferito
un'immagine usata da un suo amico glaciologo, il
quale aveva paragonato il sistema climatico a una
barca a remi: "Può inclinarsi da un lato e poi ritornare a posto. Può
inclinarsi di nuovo e tornare a posto. Ma viene la
volta che s'inclina e raggiunge l'altro stato stabile, che consiste nel restare
capovolta".
Poi Perovich
mi parlò di un'altra analogia che gli piaceva molto, ispirata alla
conformazione locale del territorio. "È una cosa che ho pensato girando in
bici nei dintorni. Qui si attraversano grandi pascoli e tutti hanno nel mezzo
questi enormi massi di granito. E poi c'è un grosso
macigno piantato proprio lì, sul pendio di una collina. Non puoi ignorarlo o
fare finta di non vederlo. Senti il bisogno di provare a smuoverlo. E così
inizi a spingerlo, e poi metti insieme un bel gruppo di amici
e tutti quanti cominciano a spingere, e alla fine il masso inizia a muoversi. A
quel punto uno realizza che forse non è stata l'idea
migliore. È ciò che stiamo facendo come società. Non
sappiamo dove andrà a finire questo clima, se inizia a rotolare".
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